G i n o D e l Z o z z o - S c u l t o r e |
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Da Monografia: ANDREA BRIGLIADORI, Gino Del Zozzo Dei Lucchi, Forlì, 1981, pg.49 Le mie pietre Il filone delle mie pietre mi conduce alla scoperta di una civiltà scomparsa. Scavate da tra i rovi ai margini della strada sterrata o dissepolte dall’aratro sulla china del colle vicino al mare, le mie pietre portano una traccia inconfondibile di umanità come toccate dalla mano dell’uomo in tempo molto lontano della cui opera non resta che l’ombra impressionata nel sasso. Guidato da quell’ombra mi immergo col subcosciente a cercare e rinnovare sentimenti tramontati ma non scomparsi, che rivivono in me scavando e incidendo quel sasso. I miei sogni sono la scoperta di idoli, di templi nascosti dove si arriva attraverso cunicoli in città sotterranee. Le immagini di quelle opere che mi passano davanti nel sogno le rivedo spesso con sorpresa, viventi sulla strada il giorno di mercato. Quando vengo distolto da queste visioni è come strapparmi l’anima dal corpo e il corpo dall’anima che vaga nello spazio. Quando opero: solo il peso del martello sento che mi dà la certezza di essere attaccato alla terra di fronte all’infinito, come preso da vertigini. Quando il sasso scelto per la emozione entra a far parte della mia anima l’opera d’arte procede così facilmente come sbrecciare una noce. Ma guai se il martello domina lo spirito, perché allora tutto finisce in frantumi. Spesso la falda della pietra mi trascina a scoprire i misteri della natura. Tutto è nel masso diceva Michelangelo. Ebbene pur mosso da questa convinzione alcune volte mi sorprende come certi tagli che segno nella pietra coincidano con la falda ben definita e modellata, pronta ad accogliere esattamente il mio scalpello che passa radente. Mai una falda mi ha sorpreso a dover abbandonare il sasso per l’opera predestinata. La maestria scaturisce dal mestiere di osservare: toccare guardando. Non è maestria ricavare una piccola sfera da un grande sasso, ma contenerla in almeno tre punti massimi delle facce del masso stesso: uno prestabilito e due conseguenti dei quali l’opera d’arte porti le tracce. Se poi al posto di una sfera si avrà una mela, avremo minor maestria ma più contenuto. Una gabbia non è una scultura / scultura è un tronco / un sasso / una mela. G.D. / 1955 da Monografia: ANDREA BRIGLIADORI, Gino Del Zozzo dei Lucchi, Forlì, 1981, pgg.21-24 La mia poetica Parlare della propria opera, con coerenza, non è facile quando si tratta di sostituirsi alle voci che avrebbero potuto fare meglio. La mia forma chiusa non ha favorito certamente la comprensione del pubblico in larga misura. Era superbia o timidezza, lo schivare la illustrazione dell’opera adducendo che questa avrebbe parlato eloquentemente da sola ? Soffrivo di misantropia fino ad essere “autolesionista”, come volle qualificarmi Ciangottini, nel ’61 a Bologna, durante la mia personale nella sua Galleria. Il Cancello: me ne stavo timidamente nell’ombra, anche se avevo piacere di essere alla luce. C’era un’autocritica di carattere psicologico fin dall’età della ragione, del non perdere l’equilibrio nella notorietà. Ho iniziato all’età di quindici anni a scolpire all’ombra dei pagliai sui colli delle Marche a Fermo in Sant’Andrea, per un segreto amore di competizione. Ipotesi fantasiose, come impegno della mente, maturavano la mia formazione dei doveri del mio esistere. Ero forte e a quell’età la timidezza era vinta dalla speranza. Le peregrinazioni mi costavano l’amore per la casa, per la qual cosa, più volte rischiai l’esito dell’avvenire nell’arte. Il tempo stringente del traguardo dei venti anni d’età, mi spronava: scalpitavo soffrendo nella disciplina che mi ero imposto di rispettare. Avevo rinunciato alla passione del calcio legandomi idealmente i piedi da quando mio padre mi aveva posto la scelta tra l’arte e lo sport. Ero cresciuto nei giochi domenicali, dei quali portavo le cicatrici per i capitomboli dai carretti prima e dalla bicicletta poi; comprese quelle dagli alberi dai quali scendevo a capo fitto dal fogliame, tenendomi in particolare le gambe attorcigliate ai rami per vedere il mondo rovesciato. Nei giuochi subentrò la passione di costruire carrozzelli come modellini dei grandi carri; poi venne la pittura e la decorazione ad intaglio. Ricordo il godimento sublime quasi arcano, superiore ad ogni gioia, spesso ripetibile nei sogni: immagine lusinghiera di quel gioco tradotto in mestiere. Il lavoro dei campi in quel tempo era veramente duro e scarse le risorse, da farci sentire quasi poveri. Fantasticavo sognando Scuole e Maestri di Città lontane. Firenze, la patria di quel Giotto, ragazzo pittore-pastorello, era una “chimera”. Ne aveva parlato con la famiglia la maestria dalle gonne corte, all’estate quand’era venuta a farci visita. Dovevo trovare un maestro di bottega, un fabbro o un carpentiere. Si, il lavoro dei campi mi attraeva e quasi ero preso per amore dagli alberi; in particolare dagli ulivi assetati nell’estate. Ma degli alberi adoravo la materia: il legno dalle fibre trasparenti sotto il taglio dello scalpello. Non avevo scoperto ancora le mie qualità artistiche che vennero inaspettate nella ricerca del mio io, quale innata attitudine per l’arte lignea. La prova di rendere lucida una superficie lignea mediante un ingrediente verdastro di soluzione di alcool, gommalacca e colore, fu l’avvio: feci un’incisione di piccole foglie d’edera usando chiodi affilati a scalpello e bacchette d’ombrello del tipo canale, affilate e fissate in piccoli manici di legno come rudimentali sgorbie. Accadeva tutto in fretta, eppure il tempo non passava mai. Agli alberi morti toglievo la corteccia: la fibra liscia come nudo umano al sole. I rami nodosi degli olmi, gli ulivi dal ventre aperto dalla scure del chirurgo dei campi, gli aratri cigolanti nel buio, le radici morte sul campo mi suggerivano fantasmi. Gli alberi avevano avuto una vita, per recuperarla bastava non guardarli…, cercavo l’arte. Alla scuola di Montalto Marche ho appreso vari mestieri, non ultimo quello della lavorazione del cemento. Ho appreso l’arte della stampa con la silografia oltre all’intaglio e la scultura lignea decorativa. Per quella del marmo e delle varie pietre è stato un processo intuitivo: Michelangelo prima e i primitivi poi. Nel primo ritratto in marmo del trentotto, “Adolescente”, il gesto era abitudinale del modello in posa: ieratico, coincidente alla ritrattistica dell’antico Egitto. Il vero si trasformava in opera d’arte, prima ancora della realizzazione. La scelta del modello non era stata casuale. Eravamo cresciuti tutti all’ombra di Martini al quale dovevamo il rinnovamento della scultura. La grande prova doveva essere l’ “E 42” di Roma, alla quale ognuno aspirava entrare per raggiungere il traguardo competitivo, ma l’arte fu sacrificata alla Guerra e ognuno ha pagato quel diverso obiettivo. Bologna, a vent’anni, mi aveva affascinato col suo primo sole il primo maggio del 1929. Le larghe strade di periferia mi invitavano allo studio degli spazi e io ci sguazzavo dentro come in un oceano, poi vennero i portici rinascimentali e quelli della città medioevale; i Mensolini portanti le mura sporgenti delle case, le Torri, i Monumenti Onorari a Sarcofago sulle Piazze, le Chiese, gli Oratori, i Cortili, il Museo, la Pinacoteca, le Gallerie, il Paesaggio. Saccheggiavo tutte le bancarelle nella scelta di vecchie foto della Città monumentale; di prospettive e di particolari. Nella ricerca visiva mi affascinava Bologna di notte per le luce e le ombre. Ero militare di leva; una sera inoltrata d’inverno, sotto i portici di periferia, non distinsi un Ufficiali che mi incrociava. Richiamato mi scusai adducendo di aver temuto di incappare erroneamente un portinaio gallonato di grande albergo. La mantella che lo avvolgeva non mi aveva permesso di vedere le stellette delle sue mostrine. Egli mi minacciò provvedimenti per quell’appellativo della mia difesa, poi ricomponendosi mi lasciò andare. Mi ero accordato con gli amici graduati di fare servizio al Corpo d’Armata tutte le domeniche per avere libere le sere dei giorni feriali. Disegnavo anche in Caserma fino a tarda notte per mettermi alla pari di studi arretrati. Una fatica che mi costò il lavaggio degli occhi con nitrato d’argento per una improvvisa congiuntivite catarrale. Frequentavo i corsi serali della Scuola d’Arte di via Cartoleria. Quattro anni dopo mi presentavo agli esami finali anticipati, nei quali riproducevo in legno, dalla composizione plastica, un pannello decorativo per il Circolo di lettura, impiegando il tempo di una giornata domenicale chiuso nella Scuola dalla mattino alla mezzanotte: le campane della vicina chiesa, suonate dall’Ambrosiana, nel silenzio mi stimolavano. A Bologna le scelte mi venivano incontro per rifiutare il manierismo classicheggiante del quale pian piano mi andavo spogliando. “Il poligono di studio”, erano: il Museo, la Pinacoteca, la Cappella Bentivogli, San Petronio, San Domenico, San Francesco, il Portico dei Servi. Nell’architettura, la prima maturità la ebbi in Santo Stefano in quegli interni suggestivi di luci ed ombre, con particolare attenzione del Sepolcro. La parte scultorea della Fabbrica che andavo osservando avrebbe coinciso negli anni Cinquanta con il gusto maturato della formazione nella ricerca arcaica. L’arte ferrarese mi tenne per molti anni, poi vennero Modena, Parma e Verona, Venezia, Roma, la Magna Grecia, Atene; l’Egitto con tutto l’Oriente. Ultima, l’America precolombiana con tutto il suo fascino. Premetto che non ho varcato una frontiera se non consultando i testi aggiornati. Il geometrismo cubista mi è servito da lezione assieme al trattato tecnico del Wild per sviluppare l’arte d’affrontare il monolito in marmo, quindi le pietre di varie dimensioni e durezza non esclusi i graniti. Nella ritrattistica ho guardato gli Etruschi e i Romani; nella statuaria gli Egizi prima, gli Arcaici poi. La poetica di Medardo Rosso si sviluppò in me nei ritratti lignei del 1947-48, ricavati dal rocchio con la scure e la sgorbia larga di quattro dita. Il legno per la sua natura delle fibre morbide e scabrose, nella lavorazione, fa sviluppare l’intuito utile per affrontare gli altri materiali con adeguate risorse fisiche; poi verrà la scelta coerente alle proprie aspirazioni. Nel passaggio da legno alle pietre colorate, in particolare i graniti dei massi di fiume, ho sentito maggiore coerenza plastica a causa dei cristalli della pietra che mi permettevano d’intuire il finito trasparente in profondità come la cera, più in là del ferro e del bronzo. In questo lento processo di usura del duro materiale frenante gli impeti del cavare le forme, mi guidava il godimento musicale ritmato dai colpi di martello lontano dal frastuono dei meccanismi. Cresceva la personalità. In quanto alla scultura gotica d’oltralpe dirò che mi ha interessato fin dai legni del ’47 in particolare quella ai margini del tetto di Notre Dame di Parigi densa di contenuti al pari di quella di Verona e i ritratti degli Scaligeri. Poi venne lo studio delle Vetrate delle Cattedrali d’oltralpe quando la grafica mi portava verso la linea continua e grossa dopo lo studio paziente dei Viticci romanici delle Cattedrali. Il paesaggio dalla macchia ritmata, me lo hanno suggerito il nero delle siepi sulla neve dall’alto della piana della Romagna e i branchi di renne nei films della vita nordica; dopo la lezione del Bruegel e del Goya. Anche le immagini tra la nebbia mi interessarono per un certo tempo, poi tutto volle essere risolto dal segno nella luce. Non mi sono lasciato tentare dal facilismo imitativo, né dalla schiavitù dell’ispirazione, ma ho voluto operare scavando in profondità per verificare le radici comuni nei ritorni del tempo. Quando si raggiungono certi valori stilistici riferibili ad un maestro, senza averlo prima incontrato nella propria formazione, vuol dire che si è percorsa la stessa strada nella ricerca poetica mossa dall’inconscio di uguale natura. Certa critica parolaia si taglia le gambe sul nascere prima ancora che sbarri la strada al neo-poeta. L’opera d’arte racchiude il discorso più completo e inesauribile che vi possa fare. Le parole facilitano la lettura fino a un limite; oltre quelle restano semplici parole. Ricercare la causalità della realizzazione dell’opera è come voler sapere perché esiste l’universo. L’opera d’arte è parte integrante dell’universo stesso, come l’acqua, la nuvola, il fuoco. Ho lavorato per quella voce che sentivo dentro, da quando, chiamato all’appuntamento per l’arte, lasciai nel campo il cesto dei pomi di patata che avrei dovuto seminare. Quei pomi non germogliati sono divenuti pietre: i miei sassi. Quando in provincia non trovi chi ti segue, di conseguenza trovi che ti persegue, dici a te stesso: la mia opera sarà soltanto mia; che vuol vedermi insegua le opere nelle mostre fuori. ? da fuori che vennero i primi consensi fino a quando di persona raccolsi i dissensi come in Romagna da un vecchio artista il quale volle dirmi in via amichevole che la scultura dava fastidio. Di preferenza non andavo alle mostre, per lasciare al pubblico la libertà e il tempo di accettare le opere in una visuale interpretativa. Non mi presentavo anche per quell’ipotetica antipatia personale che avrei potuto suscitare con conseguente discapito alle stesse opere. Sapevo di non essere loquace sulle mie cose ed ero schivo alle presentazioni; in pià mi urtava la ciarleria tanto di moda, del parlare “Come una mitragliatrice”. Mi dicevo: sono fuori del tempo: per i giovani già vecchio, per i coetanei troppo giovane. Anche la critica ufficiale, fatte alcune eccezioni, si è disinteressata e non è che io abbia voltato le spalle. Si voleva mostre. Io andavo adagio per realizzare cose sempre nuove e volevo solamente lavorare. L’opera dell’artista è come una tavola subordinata ai capricci del tempo: può condensarsi e sciogliersi in pioggia utile al raccolto o disfarsi nel nulla dal troppo calore o trasformarsi in tempesta incontrollata. Sono al tramonto della mia giornata artistica. Mi accontento del lavoro svolto e delle tappe raggiunte. Per fare di più non ero nato. Rimproverare a Bulfammacco “i suoi ozi” è come togliere una parte della sua personalità. Il giudizio su di un artista va ricercato nella poetica dell’opera completa all’incontro con il suo tempo. In una seggiola rustica può esserci più poesia che in una poltrona rococò; come in un vecchio aratro più che in una motozappatrice. L’artefice che crea è uno. Non ci sono subalternanze tra l’artista e l’artigiano partecipe. “La maestria scaturisce dal mestiere di osservare: toccare guardando. Non è maestria ricavare una sfera da un grande sasso, ma contenerla in almeno tre punti massimi delle facce del masso stesso: uno prestabilito e due conseguenti dei quali l’opera finita porti le tracce. Se poi al posto della sfera si avrà una mela, avremo minor maestria ma più contenuto. Una gabbia non è una scultura / scultura è un tronco / un sasso / una mela.” La critica che si è interessata alla mia opera ha trovato versioni discordi: ha parlato di maestria, di impegno politico, di forza di contenuti, di scandali, di derivazione, ma sempre di un “contro corrente” e, isolato. Giudizi e pregiudizi avrebbero voluto tenermi in avanscoperta nelle correnti impegnate, giocando nel ruolo di capo scuola. Non ero cresciuto per la gara alla notorietà o per l’arrivo nella scalata sociale. Dirò che il movente che mi ha condotto è ed è stato solo passione, come primo incontro nell’età giovanile. Amo tanto le mie cose che soffro a distaccarmene come cosa scavata da dentro. L’incontro con l’arte nuova è stato come rivedere i volti assopiti del passato, sentirne l’alito del respiro e i palpiti, camminando a fianco. Quei volti e quei palpiti mi venivano incontro dal riflesso delle pietre che andavo operando. Nella ricerca sul letto del fiume ogni pietra aveva un linguaggio; si trattava di saperlo interpretare. Le opere che hanno concluso le tappe nella ricerca resistono nel mio dentro in conflitto con quelle non nate e rimaste sul greto del fiume. Per quanto riguarda la crescita culturale dirò che per il linguaggio della parola, dal dialetto parlato alla espressione grammaticale, fin dalla età scolare c’è stato un abisso incolmabile, prolungato nel tempo con la traccia d’un piccolo ma durevole trauma, nato dalla lettura a scuola di un commovente brano, per il quale lacrimando leggevo a stento. Fui bloccato dalla risata di un saputello insensibile compagno dietro di me. La pedagoga maestrina non fece niente per aiutarmi ad uscirne. Negli anni a venire mi fu sempre amaro competere, anche se cresceva la ponderazione della parola colloquiante, che andavo sempre formando con le idee chiare. Molto mi ha aiutato lo studio del disegno come guida della riflessione nell’appropriazione degli argomenti, nella costruzione delle immagini del periodare come lo svolgimento di un fregio decorativo, dall’insieme al particolare. La musicalità della parola mi ha sempre aiutato, al di là del meccanismo grammaticale, dal quale uscivo sempre malconcio. Dalle letture classiche che andavo associando alla sensibilità stilistica del tempo, alle opere figurative, ricavavo il godimento incoraggiante a sempre aspirare alla perfezione. Lo studio delle arti, nella esplorazione a ritroso nei secoli delle varie civiltà, ha maturato questo mio modo di esprimermi con le parole. Il tirocinio letterario alla Scuola di Montalto, accettato con fatica, spesso domenicale, mi ha dirozzato e comunicato un certo ordine, anche se il periodare manzoniano era per me una questione di suoni che supplivano egregiamente alle mie lacune grammaticali. Si dice infatti che la musica ed il disegno siano delle matematiche e quindi ordine. Nella crescita dello scrivere, attraverso la osservazione del disegno come espressione della personalità, nei miei anni di insegnamento, ho potuto osservare la maturità di due allievi di Forlì: partendo dai loro lavori spontanei di preparazione paesaggistica e invitandoli alla espressione verbale su quanto avevano analizzato graficamente, ogni anno migliorando poterono superare difficoltà di espressione. Erano bravi disegnatori cresciuti culturalmente che potevano sfatare l’ottocentesco pregiudizio “dell’artista asino”, che favoriva molti slogan della società del tempo. |
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